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Omicidio Vassallo: ci sarebbe l’aggravante del metodo mafioso, ma non dell’agevolazione al clan camorristico Cesarano di Ponte Persica, frazione di Castellammare di Stabia (contestata dai pm). A dirlo è il gip Annamaria Ferraiolo del tribunale di Salerno, nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, eseguita ieri nei confronti di quattro indagati. La distinzione può apparire secondaria ad alcuni. Ma in realtà potrebbe avere ricadute sul prosieguo del procedimento, nonché di quelli connessi. Si parla della circostanza aggravante prevista dall’articolo 416 bis 1.

Nell’esaminare la richiesta della procura di Salerno, il giudice condivide solo in parte questo aspetto. Ossia considera sussistente l’aggravante, ma “esclusivamente nella forma del cd. “metodo mafioso”. Alla questione dedica cinque pagine del provvedimento, relativo all’accusa di omicidio del “sindaco-pescatore” di Pollica.

“Sebbene, infatti – scrive il gip -, si sia ritenuta l’operatività in Acciaroli nell’estate 2010, di un gruppo criminale dedito al traffico di stupefacenti capeggiato da Maurelli Raffaele e Cafiero Giovanni, genero di Gaetano Cesarano e ritenuto intraneo al sodalizio criminale denominato “clan Cesarano” (cfr. OCC GIP del Tribunale di Napoli n. 215/2023), il compendio investigativo sinora acquisito non restituisce elementi sufficientemente chiari ed univoci nel senso della riferibilità di tali traffici illeciti al sodalizio criminale e non ad una iniziativa autonoma di Maurelli e Cafiero e degli altri partecipi”.

Anzitutto, va tenuta presente una cosa. Maurelli, Cafiero e Gaetano Cesarano non sono accusati dell’omicidio di Angelo Vassallo (nella foto), né risultano indagati nel procedimento sfociato ieri negli arresti. Quanto afferma l’ordinanza, concerne in tal caso solo i destinatari delle misure cautelari. Ovvero il colonnello dell’Arma Fabio Cagnazzo, l’ex brigadiere dei carabinieri Lazzaro Cioffi, l’imprenditore Giuseppe Cipriano e Romolo Ridosso, collaboratore di giustizia già appartenente al clan Loreto-Ridosso. Ebbene nell’interpretazione del giudice, il presunto traffico di droga – secondo la Dda di Salerno tra i cardini nel movente dell’omicidio – non è neppure riconducibile al clan Cesarano. “Di peculiare rilievo, in tal senso – argomenta il giudice -, le dichiarazioni rese da Ridosso Romolo all’interrogatorio del 8 giugno 2017, nel quale precisava che il gruppo di Maurelli, sebbene collegato al clan Cesarano, non operava per conto del clan camorristico”. Il collaboratore di giustizia appunto risponde: “Cafiero Giovanni è il genero di Gaetano Cesarano e quindi non aveva motivo né di presentazioni né di farsi accreditare. Il gruppo costituito da Giovanni Cafiero, Cipriano Giuseppe, Maurelli Raffaele e gli altri era comunque collegato al clan Cesarano, sebbene non operasse sotto tale nome”. Infatti, “Cafiero Giovanni – sostiene Romolo Ridosso – non operava come esponente del clan Cesarano per evitare di dividere i proventi di tali traffici con gli affiliati di quest’ultimo gruppo che all’epoca erano liberi ed in particolare con Michele Onorato che era il reggente del clan. Gli affiliati al clan Cesarano, pertanto, nulla sapevano di questi traffici di stupefacenti del gruppo del Cafiero che, come vi ho detto, aveva collegamenti anche con Nicola Schiavone”. E ancora, nel racconto del pentito: “Il Cafiero e gli altri erano molto riservati e non facevano capire ai gregari del clan Cesarano delle attività che conducevano autonomamente. Non so se di tali particolari fossero informati i Cesarano delle attività che conducevano autonomamente. Non so se di tali particolari fossero informati i vertici del clan Cesarano”.

Secondo il gip, “né contrasta con tale ricostruzione quanto riferito dallo stesso Ridosso all’interrogatorio dell’8/ 6/2022, attesa la genericità delle dichiarazioni in ordine al collegamento dell’attività del Maurelli con il clan Cesarano e, in ogni caso, l’assenza di riscontri estrinseci in tal senso”. Il giudice non ritiene a “tal fine sufficiente l’accertato ruolo apicale nell’organigramma del sodalizio svolto da Cafiero Giovanni, per come ritenuto dall’A.G. napoletana, in quanto riferibile ad un arco temporale notevolmente successivo a quello in cui maturava l’omicidio del Sindaco Vassallo”. Ma ci sono altre considerazioni. “D’altra parte – sottolinea l’ordinanza -, anche la finalità sottesa all’agguato al Sindaco Vassallo, essenzialmente decodificabile nella volontà di impedirgli di rivelare quanto scoperto in merito al traffico di stupefacenti ed ai soggetti in esso coinvolti, determina una obiettiva difficoltà di configurare l’atto omicidiario in termini di agevolazione dell’intero sodalizio (che, in verità, qualora coinvolto nella remunerativa attività di traffico di stupefacenti, certamente non proseguibile dopo un omicidio così eclatante, ne avrebbe ricevuto un indubbio danno) e non di protezione dei singoli soggetti coinvolti, peraltro tutti non intranei al clan Cesarano, ad eccezione di Cafiero Giovanni”.

Per il gip, tutto ciò però non rende meno grave il quadro indiziario. “D’altra parte – si legge -, non potrebbe trascurarsi che negli ultimi giorni di vita, il Sindaco Vassallo maturava la chiara ed effettiva percezione della presenza sul territorio di una organizzazione criminale operante secondo gli schemi camorristici, tanto da confidare a Vaccaro Domenico (sindaco del Comune di Lustra, ndr) che qualcuno voleva portare la “Camorra” in Cilento, pur ribadendo che avrebbe fatto di tutto per evitarlo”. Vassallo, secondo le indagini, si riferiva ad una “organizzazione la cui forza di intimidazione veniva percepita con altrettanta chiarezza dalla vittima, che manifestava seri timori per la propria incolumità, tanto da modificare radicalmente le sue abitudini”. Non bisogna dimenticare le modalità esecutive del delitto. Vassallo era atteso dai killer in una “zona buia ed isolata”, sul percorso “abitualmente seguito” per rientrare a casa. “Il luogo dell’appostamento veniva, peraltro, – rileva il gip – individuato con una non trascurabile professionalità, senza tralasciare alcun dettaglio, all’esito di due sopralluoghi”. ‘Procedure’ di condotta, stando al giudice Ferraiolo, “ampiamente evocative di un’azione intimidatoria e dimostrativa”. In sostanza, “in tale contesto, la coazione psicologica e l’effetto di intimidazione che le modalità esecutive dell’azione intendevano ed erano in grado di determinare, non solo nella vittima” ma anche “nel contesto sociale cilentano, si disvelavano, dopo l’omicidio del Sindaco Vassallo, attraverso il diffuso clima di omertà che permeava la comunità”. Ecco perché si potrebbe parlare di “metodo mafioso”.