La prima volta non si scorda mai. Se è rarità, diventa storia. Il 10 maggio 1987 il Napoli si laureava (un termine molto anni ’80) campione d’Italia. Quel successo aveva il volto di Diego Armando Maradona, il Dio del calcio che guidò gli azzurri ad un traguardo che negli anni era diventato un vero e proprio tabù.
Quel giorno, allo stadio San Paolo c’erano un numero di tifosi che mai si conterà più all’interno dell’impianto di Fuorigrotta. Quasi novantamila spettatori, se si considera il numero di paganti più una quota portoghese che in questi eventi non manca mai.
Tabù, si diceva, lo stesso che sembra ciclicamente accostarsi alle sorti del Napoli calcio: da anni la squadra partenopea ronza intorno al tricolore ma non riesce a piazzare la zampata. Questione di dettagli, evidentemente, e di una palese assenza di un leader, campione dentro al campo e fomentatore di folle fuori.
Erano le 17.47, secondo più, secondo meno. La città impazzì di gioia, una festa iniziata allo stadio e durata settimane, forse mesi. Prima di quella stagione la squadra partenopea aveva sfiorato per ben tre volte il tricolore, ma mai era riuscita a coronare il sogno che sembrava quasi proibito.
Fu il successo di Diego, del presidente Ferlaino che con l’acquisto del Pibe de Oro fece all-in, del tecnico Ottavio Bianchi, la migliore personalità che potesse gestire un ambiente incandescente, il dg Italo Allodi ed il capitano Peppe Bruscolotti.
Quella notte, la più lunga delle notti partenopee, fu affisso uno striscione davanti il cimitero di Fuorigrotta. La scritta fu inequivocabile: ‘Uagliù, nun sapit che vi sit pers!’. Come se morire prima del trionfo del Napoli fosse una colpa.