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Il gup di Napoli Rosamaria De Lellis ha condannato a 30 anni di reclusione Salvatore Allard, imputato al processo con il rito abbreviato per l’omicidio volontario pluriaggravato del poliziotto Domenico Attianese, ucciso oltre 37 anni fa mentre tentata di sventare una rapina alla gioielleria Romanelli del quartiere Pianura di Napoli.
Accolte le richieste del pm Maurizio De Marco, che al termine della sua requisitoria ha chiesto la condanna a trent’anni di carcere.
La sentenza è stata accolta tra le lacrime della figlia Carla e della moglie della vittima.

Giustizia è fatta, nulla potrà restituirci papà, a me a mia sorella Carmen, e il marito a mia madre, Angela Chirico, ma è significativo e molto importante che dopo oltre 37 anni la verità e la giustizia riescano a prevalere”. Così, visibilmente commossa, Carla Attianese, figlia del sovrintendente capo Domenico Attianese – ucciso oltre 37 anni fa mentre tentava di sventare una rapina alla gioielleria Romanelli del quartiere Pianura di Napoli – dopo la lettura della sentenza con la quale il gup di Napoli De Lellis ha condannato a trent’anni Salvatore Allard, coinvolto nella rapina sfociata nella tragedia.
E’ un fatto importante – ha aggiunto Carla – non solo per la mia famiglia ma per tutta la società, ed è un messaggio fondamentale per tutti coloro che attendono che giustizia sia fatta: mai perdere la speranza, la nostra vicenda dimostra che la fiducia va tenuta viva. La mia famiglia e io vogliamo ringraziare il nostro l’avvocato di parte civile Gianmario Siani, che ci è stato vicino come professionista e come amico.
Mi piace ricordare in questo momento anche la sua vicenda, – dice ancora Carla – e pensare che in qualche modo i nostri cari – papà e Giancarlo – ci hanno unito, a dimostrazione che la criminalità non vince mai. Un grande grazie infine alla polizia scientifica, al dottore Luigi Vissicchio e alla Procura di Napoli, con il pm Maurizio De Marco e il procuratore aggiunto Pierpaolo Filippelli, che hanno riaperto questo cold case e con tenacia e coraggio sono riusciti ad arrivare alla verità”. “Resta il rammarico – conclude Carla Attianese – per la decisione della giudice, arrivata alla scorsa udienza, di non concedere la costituzione di parte civile alla fondazione Polis e al Comune di Napoli, che avevano avanzato richiesta. Avere al nostro fianco come parti civili le istituzioni del territorio avrebbe significato, soprattutto, per la memoria di mio padre, un importante riconoscimento del suo impegno per la sua città e per la società. Resta la gratitudine per la vicinanza dimostrata alla mia famiglia e alla storia di papà dal Comune di Napoli e, attraverso la Fondazione Polis, dalla Regione Campania”.

A causa delle gravi condizioni di salute, che non hanno reso possibile la traduzione in aula e la partecipazione al giudizio, la posizione del secondo imputato, Giovanni Rendina (difeso dall’avvocato Marco Esposito del foro di Napoli), già nella precedente udienza, è stata stralciata.
Oggi, quindi, è stato definito solo il procedimento in abbreviato di Salvatore Allard. Quello che riguarda Giovanni Rendina, invece, è stato rinviato al prossimo 16 settembre, in attesa del miglioramento delle sue condizioni di salute.
Rendina, infatti, è ricoverato da quasi due mesi in ospedale a causa di una polmonite contratta nell’istituto penale dove era detenuto.
Qualche giorno fa è uscito dal reparto di rianimazione del San Giovanni Bosco ed è ora in attesa di riprendersi attraverso un percorso di riabilitazione.
Il problema del sovraffollamento carcerario – dice l’avvocato Marco Esposito, presidente dell’istituto forense per la difesa dei diritti umani – è una piaga che affligge la maggior parte degli istituti penitenziari italiani e favorisce il proliferare di tipologie di batteri resistenti, che sono comuni anche nei contesti ospedalieri. Per quanto attiene il procedimento in corso – aggiunge il professionista – si stigmatizzano le affermazioni apparse sulla stampa nei quali si affermava categoricamente che il sovraintendente Attianese era stato ucciso ‘dai colpi sparati da Rendina e Allard’. Tale affermazione in realtà non trova riscontro nel materiale probatorio. Il sovrintendente fu attinto da un unico colpo calibro 9 verosimilmente esploso dalla sua pistola di ordinanza.
E’ quindi importante promuovere il rispetto da una parte del diritto alla salute dei detenuti, dall’altra il sacrosanto rispetto della presunzione di innocenza”.

Risulta provato che due dei tre rapinatori entrati nella gioielleria Romanelli il 4 dicembre 1986 si identifichino in Allard Salvatore e Rendina Giovanni”, il terzo rapinatore “elegantemente vestito, non è stato identificato” ma “la presenza delle impronte di Rendina Giovanni e di Allard Salvatore è univoca”. Requisitoria breve ma intensa oggi, nell’aula 410 del Nuovo Palazzo di Giustizia di Napoli, da parte del pm di Napoli Maurizio De Marco, nell’ambito del processo con il rito abbreviato sull’omicidio volontario pluriaggravato del sovrintendente capo della Polizia di Stato Domenico Attianese, ucciso oltre 37 anni fa mentre tentava di sventare una rapina nel quartiere Pianura di Napoli.
Il magistrato ha chiesto e ottenuto dal gup De Lellis la condanna trent’anni di reclusione per Salvatore Allard finito sotto processo insieme con Giovanni Rendina la cui posizione però è stata stralciata nelle scorse udienza per gravi problemi di salute. “Entrambi gli imputati – ha detto ancora De Marco – hanno negato la loro presenza nella gioielleria… uno dei tre rapinatori era armato di una pistola 7,65 di cui sono stati rinvenuti diversi reperti balistici e uno aveva una riproduzione in plastica di un revolver”.
De Marco spiega al giudice che i tre “entrano nella gioielleria alla spicciolata” e poi “immobilizzano i presenti“: il sovrintendente Attianese, che abita nelle vicinanze, avvertito della rapina dalla figlia Carla (oggi presente in aula con la madre), entra nella gioielleria con la pistola d’ordinanza, malgrado non fosse in servizio: “Chiude dietro di se la porta del negozio, – spiega il magistrato – bloccando i rapinatori.
Nella colluttazione con almeno due dei rapinatori, di cui parla anche Carla Attianese, il sovrintendente ha la peggio, venendo disarmato. Viene bloccato con una presa al collo e fulminato a bruciapelo da questo stesso rapinatore certamente con la pistola d’ordinanza”. I tre, resisi conto che la porta è bloccata, cercano di forzarla: Rendina premendo con il palmo della mano sul vetro e il rapinatore con la pistola calibro 7,65 sparando tre volte (se ne troveranno poi le tracce)”.
Allard mette in borsa il portagioie prelevato dal negozio e sul quale verrà poi trovata la sua impronta che farà il paio con quella di Rendina sulla porta.
A tutti e tre i rapinatori, anche quello che non è stato ancora identificato, viene contestato di omicidio pluriaggravato e, secondo De Marco “non vi sono elementi per riconoscere ad Allard le attenuanti generiche, neanche la confessione che – evidenzia il pm – presenta tutti i caratteri della non completezza, della non spontaneità, del mero opportunismo processuale”.
L’avvocato di Allard ha consegnato ieri una decina di pagine nelle quali dichiara, tra l’altro, di avere preso parte alla rapina, circostanza fino a quel momento mai ammessa.
Mi ha estremamente colpito che su dieci pagine manoscritte, – ha voluto sottolineare De Marco – alla vicenda della morte del poliziotto e alla dinamica dell’accaduto sono dedicate forse sei righe: dieci pagine per parlare di se stesso e sei righe per parlare di cosa è successo quella sera”.
Nella missiva consegnata ieri dal suo avvocato, “all’undicesima ora“, dice il sostituto procuratore della Repubblica, Allard “derubrica l’esecuzione della vittima a incidente, non fa il nome di chi esplode il colpo mortale, non viene fornito il nome del terzo rapinatore e si dimentica astutamente che i rapinatori hanno portato via un’arma da fuoco 7,65 mentre si fa menzione solo della pistola giocattolo, allo scopo evidente di qualificare il concorso pieno in concorso anomalo”.