Costituiscono “l’unico mezzo di ricerca della prova utile e validamente utilizzabile in particolare per il più diffuso dei reati contro la Pubblica amministrazione, il reato di corruzione, vero e proprio cancro (anche) della nostra economia”. A sottolinearlo, in un articolo a sua firma pubblicato su Il Fatto Quotidiano, è il sostituto procuratore di Napoli, Henty John Woodcock, di recente tornato alla DDA, che per anni è stato applicato alla sezione che si occupa di reati contro la pubblica amministrazione. Il pm ricorda che la corruzione è il reato “‘a consumazione riservata’ per eccellenza” e che mai finora gli è capitato, in oltre trent’anni, di vedere un corrotto o un corruttore presentarsi spontaneamente per confessare. In tal caso, scrive ironicamente, qualora si verificasse un episodio simile, il “corruttore” o il “corrotto” “dovrebbe essere affidato alle cure di un ottimo specialista, prima ancora che a quelle del giudice penale”. Inoltre, per Woodcock, “visti gli attuali assetti della criminalità organizzata, appare improponibile scindere, come si vorrebbe (e come, in parte, si è già fatto), il regime (in particolare riferito ad alcuni istituti di diritto processuale penale, tra i quali quello riguardante le intercettazioni) applicabile in relazione ai reati riconducibili alla cosiddetta criminalità organizzata, dal regime applicabile ad alcuni reati contro la pubblica amministrazione, e in particolare al reato di corruzione, dal momento che, inconfutabilmente, proprio attraverso il reato di corruzione le grandi organizzazioni criminali penetrano le maglie della ‘cosa pubblica'”. Woodcock ritiene, infine, che la preventiva autorizzazione del giudice per sequestrare i cellulari agli indagati è una soluzione impraticabile mentre percorribile è invece “un intervento successivo e ‘terzo'”.
E, a chi dice che oggi le intercettazioni sarebbero almeno in parte inutili “perché ormai la gente non parla più al telefono”, il pm anglo-napoletano Henry John Woodcock risponde che, invece, “è vero il contrario, per fortuna”, nel senso che “le persone, ahimè per loro, continuano a parlare al telefono, e soprattutto, perciò che riguarda il mio lavoro, continuano a parlare al telefono di fatti e vicende penalmente rilevanti anche gravi”. Non solo. Paradossalmente, sottolinea, “parlando a telefono, prima si mettono in guardia a vicenda dicendo di non affrontare certi argomenti ‘scottanti’ al telefono, e poi, subito dopo e magari nel corso della stessa telefonata, provvedono a confessare o comunque a fornire significativi elementi inerenti a gravi reati da loro stessi commessi”. Il magistrato affronta, nel suo articolo, anche il problema dei costi legati all’uso delle intercettazioni, costo che però consente però la ricerca di una prova con la quale “di regola si arriva al sequestro e poi alla confisca di danaro, ovvero di beni mobili ed immobili provento/profitto di illeciti penali per un valore che supera di gran lunga le spese affrontate per l’espletamento delle intercettazioni”. Per Woodcock “ormai il telefono cellulare non è più uno strumento utilizzato solo per rapide comunicazioni, ma una vera e propria ‘scatola nera’ della nostra intera esistenza”. Sul tema il magistrato ritiene “corretto e soprattutto coerente” ma “impraticabile” approntare “utili ed efficaci garanzie” – circoscrivendo “l’oggetto e cioè lo spettro della sua ricerca” e provvedendo, poi, “all’immediata restituzione di quanto non risulta pertinente e rilevante rispetto al tema probatorio”. Per questo propone una soluzione diversa, immaginando “un intervento del giudice successivo all’apprensione dei dati”.