Tempo di lettura: 3 minuti

 

Il registro cambia quando il feretro di Giovanbattista Cutolo entra nell’auto, per l’ultimo viaggio, baciato dai genitori, tra lanci di fiori bianchi. In piazza del Gesù scompare l’aria mesta, scandita dalle note dolci dell’orchestra Scarlatti Camera Young, dove Giogiò suonava il corno.

“Come si fa a chiedere scusa, è un crimine efferato. Questa è una porcata” insorge Daniela Di Maggio, mamma del musicista ucciso. La donna si ribella a una domanda dei cronisti, dopo il messaggio contrito del killer 17enne. Nessun perdono per lui. All’atmosfera raccolta del funerale, nella chiesa del Gesù Nuovo, si sostituisce un’imperiosa richiesta giustizia. “Chiedo pene giuste per ragazzi che – grida la donna – non possono essere chiamati più ragazzi ma schifosi criminali, è andato a giocare a carte dopo che ha ucciso”.

Tutto intorno si levano urla dei presenti, parenti e amici di Giogiò, “fine pena mai” e “in galera a vita”. Mamma Daniela però non è una mater dolorosa. Non ci sta a farsi piegare dal lutto tremendo. “Certo che Napoli cambia – prorompe ancora -, altrimenti la morte di Giogiò a cosa è servita?”. Per lei, suo figlio “è un martire, si è immolato per un cambiamento”. Poi sferza la città: “Basta con le coscienze addormentate, noi napoletani dobbiamo combattere”. Si scusa anche (“sono tesa e nervosa”). L’emozione si alterna alla voglia di reagire: “La Napoli bella è tutta qui ad omaggiare mio figlio”. Alla scena assiste una piazza gremita, come stipata era la chiesa: impossibile entrare a un certo punto, in migliaia hanno assistito alla celebrazione da un maxischermo. Il momento finale è quello dove dolore e rabbia si sciolgono. Prima c’era stato tanto silenzio, interrotto solo dall’omelia dell’arcivescovo Battaglia. Un discorso intriso di mea culpa.

“Accetta la mia richiesta di perdono! Perché sono colpevole anche io!” dice il presule. “Fin dal primo giorno dell’arrivo in questa città – spiega Battaglia – mi sono reso conto dell’emergenza educativa e sociale che la abitava e ho cercato di adoperarmi con tutto me stesso. Forse avrei dovuto non solo appellarmi ma gridare fino a quando le promesse non si fossero trasformate in progetti e le parole e i proclami in azioni concrete”. E ancora l’invocazione del vescovo: “Perdonaci tutti Giogiò, perché quella mano l’abbiamo armata anche noi, con i nostri ritardi, con le promesse non mantenute, con i proclami, i post, i comunicati a cui non sono seguiti azioni, con la nostra incapacità di comprendere i problemi endemici di questa città che abitata anche da adolescenti, poco più che bambini, camminano armati, come in una città in guerra”. Battaglia però denuncia: “I silenzi che fanno male sono ancora troppi”. Ai tantissimi ragazzi, il vescovo non replica la litania del fujtevenne, di eduardiana memoria. “Restate” è il suo appello. Scrosci di applausi accolgono la bara all’uscita. Ma in giro lo smarrimento è palpabile.