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Si estende a 2.000 anni il periodo per il quale si hanno dati sulla deformazione del suolo nei Campi Flegrei, grazie alla ricostruzione di quasi 150 anni prima, durante e dopo l’eruzione del 1538 che ha portato alla formazione del Monte Nuovo. La ricerca, condotta da Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e Università di Roma Tre, è pubblicata sulla rivista Geophysical Research Letters. Con un insieme di dati unico e liberamente accessibile, che integra dati geologici, archeologici e storici, sono state definite le fasi di attività del vulcano dal 1515 al 1650. Gli autori della ricerca rilevano che i risultati hanno “una valenza essenzialmente scientifica, priva al momento di immediate implicazioni in merito agli aspetti di protezione civile”, e che “non hanno alcuna implicazione diretta su misure che riguardano la sicurezza della popolazione”. Rappresentano invece “un contributo potenzialmente utile in futuro per affinare gli strumenti di previsione e prevenzione di protezione civile”. I nuovi dati sono stati integrati con quelli preesistenti, permettendo di ottenere “un database di circa 2000 anni di deformazione del suolo ai Campi Flegrei, uno dei traccianti della dinamica del vulcano”, osserva il direttore dell’Osservatorio Vesuviano dell’Ingv Mauro Antonio Di Vito, coautore dello studio. Se oggi satelliti e stazioni a Terra permettono di ricostruire le deformazioni del suolo, “ancora molto poco sappiamo del comportamento dei vulcani e delle loro eruzioni avvenute nel passato, prima dell’avvento dell’era strumentale”, osserva Elisa Trasatti, ricercatrice dell’Ingv e primo autore della ricerca. “Esistono vulcani, come i Campi Flegrei, che hanno avuto l’ultima eruzione in tempi in cui non esistevano strumentazioni scientifiche per la rilevazione di questi fenomeni e ciò comporta, oggi, una limitata possibilità di comprenderne a fondo il comportamento prima e dopo gli eventi eruttivi”, aggiunge Trasatti. 

Modelli matematici per simulare il sistema magmatico del vulcano hanno permesso di comprendere che l’eruzione del 1538 “è stata preceduta da un’intensa deformazione del suolo che ha riguardato prima l’area di Pozzuoli, poi si è localizzata nell’area della futura bocca eruttiva, raggiungendo 20 metri di sollevamento. Dopo l’eruzione, dal 1538 al 1540, la caldera – aggiunge Trasatti – è stata interessata da fenomeni di subsidenza mentre dal 1540 al 1582, per più di 40 anni, è avvenuto un sollevamento del suolo prima di entrare in una nuova fase di subsidenza che reputiamo sia durata fino a metà del XX secolo”. I modelli matematici, osserva Di Vito, “hanno evidenziato che durante l’eruzione c’è stato un trasferimento di magma tra una sorgente posta a circa 4 km di profondità verso la bocca eruttiva di Monte Nuovo e che nel periodo successivo connotato dal sollevamento del suolo, questo fenomeno si è ripetuto a causa della risalita di nuovo magma, senza però che raggiungesse la superficie. Tale fenomeno è stato definito ‘eruzione abortita'”. I dati indicano inoltre che “la porzione di magma eruttato nel 1538 è un centesimo circa di quella che si è accumulata sotto il vulcano tra il 1250 e il 1650”, dice un altro autore della ricerca, Valerio Acocella, dell’Università Roma Tre. “Questo fatto – aggiunge – evidenzia la forte capacità del sistema flegreo di trattenere il magma, eruttando una porzione minima”.