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Non basta autoaccusarsi di alcuni omicidi, per attenuare le più gravi esigenze cautelari. E non serve nemmeno una laurea con 110 e lode, per scansare un ordine di carcerazione. Per Catello Romano, ‘il killer laureato’, non si ritiene superata la presunzione di pericolosità sociale. Così è stato raggiunto da un’ordinanza del gip Marco Giordano, per l’applicazione della più severa misura custodiale. Un provvedimento richiesto dalla Dda di Napoli, eseguito oggi nei confronti di 6 indagati, considerati appartenenti al clan D’Alessandro di Castellammare di Stabia.

Tra le pieghe dell’ordinanza, emerge la storia originale del 33enne Romano. A lui si contestano omicidi e tentati omicidi. E per la prima volta, anche l’associazione a delinquere di tipo mafioso. Ma ad ottobre scorso, sempre in cella, Romano si è laureato col massimo dei voti (e menzione accademica) in Sociologia. Tutta un programma la tesi, intitolata “Fascinazione criminale”. Un lavoro ricco di richiami autobiografici, dove si parla anche di delitti irrisolti. Di più: sembra una catarsi personale. Nella tesi Romano confessa il suo tormento per alcuni delitti, commessi da sicario appena maggiorenne. Anche se, tecnicamente, non è mai diventato un collaboratore di giustizia.

Alla discussione della tesi, tra gli altri, assisteva anche un Imam. Nel suo percorso, infatti, Romano si è pure convertito all’Islam. E insomma: la laurea da studente modello, l’ammissione di efferati fatti di sangue, l’afflato religioso. Ci sarebbero gli ingredienti di un cammino di redenzione. E nel clima di festa, non si manca di esaltare la funzione rieducativa della pena. Tutto bene quel che finisce bene? Niente affatto. Perché alla narrazione del riscatto non crede troppo il gip di Napoli. E per spiegarlo, si dilunga proprio sulla tesi di laurea. Certo, in quelle pagine Romano “ha espressamente preso le distanze dal proprio passato malavitoso”. E ha anche manifestato “un generale sentimento di vero e proprio disprezzo” per la camorra. Parole corroborate, scrive il giudice, dall’integrale ammissione di responsabilità su tre omicidi e un ferimento. Tuttavia, a detta del gip, ci vuol altro. “Le labiali prese di distanza dal crimine e dalla camorra – ammonisce il magistrato – valgono quello che valgono, cioè nulla“. Le abiure dell’ex killer sono derubricate ad “astratte prese di posizione”. Idem le “dichiarazioni autoaccusatorie”.

Per quei raid di piombo, Romano formalmente non sapeva “di indagini a suo carico”. Ma era “ovviamente ben a conoscenza” della scelta di altri membri del gruppo di fuoco, passati a collaborare con la giustizia. Dai verbali degli ex compari, sostiene il gip, Romano poteva aspettarsi chiamate di correità. E quindi attenti: il suo potrebbe non essere un “ravvedimento”, ma una mossa utilitaristica. Un modo di cercare “benefici esecutivi”. Nella tesi di laurea, ciò che “colpisce” il giudice è una “scrupolosa attenzione dell’autore“. Cioè, un racconto che non accusa “complici e sodali diversi” dai pentiti. Una “spiccata e puntuale ritrosia”, da cui non si evince “la prova diretta” di una rottura dei legami col clan. Sul capo dell’ex killer piomba così l’accusa di associazione mafiosa. Uno status di cui egli parla nella tesi. Dapprima svelandone il desiderio, con aneddoti da killer ragazzino, quando un capo lo elogia (“tu sei nato proprio camorrista!”). In seguito escluso, dicendosi mai affiliato (“m’ero ingannato d’essere entrato de jure”). Adesso, al contrario, è un addebito in più.