Si è preso atto del “no” dei dipendenti al prosieguo del tavolo di confronto nella riunione tenuta oggi al Ministero del Lavoro sulla vertenza che coinvolge la multinazionale Usa dell’elettronica Jabil, che ha lo stabilimento a Marcianise (Caserta). Presenti i rappresentanti dell’azienda e delle segreterie nazionali e territoriali dei sindacati dei metalmeccanici, Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm, insieme ai delegati sindacali aziendali (RSU) di Jabil.
Ieri la stragrande maggioranza dei 418 lavoratori Jabil, nell’assemblea tenuta a Marcianise, ha confermato il “no” al piano di mitigazione sociale presentato da Jabil per evitare i licenziamenti, conseguenza della sua decisione di cessare l’attività a Marcianise entro marzo 2025. Uno stop, quello dei lavoratori, che ha di fatto chiuso la fase di dialogo congiunto con l’azienda previsto dalla legge 234 del 2021.
A far naufragare il dialogo la netta contrapposizione dei lavoratori alla proposta di Jabil di cedere lo stabilimento con i 418 addetti ad una società di nuova costituzione, la Tme Assembly Engineering Srl, composta dall’azienda casertana Tme di Portico di Caserta e da Invitalia.
Preso atto dello stop definitivo al confronto, e dunque del mancato accordo con i lavoratori, oggi a Roma i vertici Jabil hanno quindi ribadito la decisione di cessare l’attività a Marcianise entro marzo, manifestando la volontà di arrivarci con i licenziamenti unilaterali, e con i sindacati hanno concluso la procedura sottoscrivendo il mancato accordo.
I rappresentanti dei lavoratori, così come riporta una nota congiunta di Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm, hanno invece espresso “la loro assoluta contrarietà alla decisione della multinazionale americana di abbandonare il territorio casertano, in quanto esistono ancora le condizioni per proseguire le attività industriali a Caserta. La determinazione di Jabil a ignorare le proposte delle rappresentanze sindacali durante tutto il negoziato, unita ai precedenti fallimenti dei piani di ricollocazione di Softlab e Orefice, ha alimentato e aggravato la sfiducia dei lavoratori verso un progetto di ricollocazione imposto e chiuso alle esigenze del territorio”, concludono i sindacalisti.