L’ottava sezione del Tribunale del Riesame di Napoli (collegio F) ha escluso l’associazione mafiosa per Nicola Schiavone, il consulente di 68 anni ritenuto dalla DDA legato “a doppio filo” col capoclan Francesco Schiavone che, per gli inquirenti, avrebbe fatto confluire nella sua disponibilità denaro frutto delle attività illecite della mafia casalese. Restano in piedi però i reati di corruzione (di ex funzionari di RFI) e l’intestazione fittizia di beni.
La Procura di Napoli, dopo aver acquisito le motivazioni della decisione, potrebbe però fare ricorso alla Corte di Cassazione proprio sull’esclusione del 416 bis. Negli atti consegnati ieri ai giudici, la DDA spiega le relazioni tra il capoclan, soprannominato “Sandokan”, i fratelli Schiavone e Maurizio Campolongo (anche quest’ultimo ritenuto legato alla stessa fazione), già condannato per associazione mafiosa. Non solo. Sono presenti numerosi “pizzini” sui quali sono annotate ingenti somme di denaro (in alcuni casi anche superiori al miliardo di vecchie lire, ndr) e altri documenti contenuti in due cartelline sequestrate in una villa del Casertano recanti intestazioni piuttosto inequivocabili: una con la scritta “Si può bruciare tutto, conteggi e promemoria Nicola e Teresa”, l’altra con il testo “sono conteggi dopo da strappare”. Materiale (tra cui anche fotocopie di assegni), in alcune parti anche criptato, che, secondo i magistrati inquirenti, dimostrerebbe la direzione che aveva preso parte del denaro di Sandokan. Le cartelline con i documenti sono state rinvenute in un trolley all’interno della villa di un prestanome di Nicola Schiavone, che per anni ha rendicontato con precisione ogni uscita o entrata di danaro, riportando più volte nei “pizzini” i nomi di Nicola e Vincenzo (identificati come i fratelli Schiavone). Nella cartellina blu destinata ad essere bruciata sono spuntati i documenti di un affare immobiliare da oltre 1,3 miliardi delle vecchie lire gestito tramite parenti e prestanome da Nicola Schiavone e Maurizio Capoluongo, i cosiddetti “affiliati riservati”, entrambi padrini di figli del capoclan Francesco Sandokan Schiavone; un affare, definito “investimento camorristico” dagli inquirenti e partito nel 1993 con un preliminare di vendita (tra i firmatari la moglie di Capoluongo e un altro soggetto ritenuto prestanome di Nicola Schiavone) da oltre un miliardo ritenuto falso dagli inquirenti, e conclusosi nel 2001 con la costruzione di un complesso immobiliare ad Aversa; un periodo in cui vi è stata la massima espansione del clan dei Casalesi, ma anche la cattura di Sandokan, nel 1998, e il processo Spartacus, in cui peraltro Nicola Schiavone è stato assolto mentre il fratello Vincenzo è stato condannato. Per la Dda i soldi usati per l’affare immobiliare proverrebbero proprio da Sandokan, che una volta in carcere li avrebbe affidati a Nicola Schiavone. Tramite i documenti sequestrati, gli inquirenti hanno infatti scoperto che il prestanome di Nicola Schiavone, nel 1999, ovvero l’anno dopo l’arresto di Sandokan, deteneva 1,3 miliardi di lire, somma che corrispondeva al valore dell’affare immobiliare, e che aveva dato cinquanta milioni di lire a tale Teresa, ovvero la moglie di Nicola Schiavone. Per la Dda Nicola Schiavone avrebbe inoltre avuto contatti con ormai ex politici e massoneria.