Non è stato un concerto, non è stato un reading. È stato un racconto, completo. Un racconto che, tra una canzone e l’altra, ha messo insieme estratti audio, letture, riflessioni personali e frammenti di vita che Federico Dragogna ha costruito intorno alla figura di Fabrizio De André. Ogni canzone suonata (e cantata), ogni parola pronunciata, ogni silenzio che è seguito ad un contributo sonoro, ha disegnato un quadro nuovo, un mosaico emotivo che andava ben oltre il semplice tributo a De André. Si respirava l’aria della sua Genova, dei suoi inizi, della sua solitudine, ma anche del suo coraggio.
“Ero alle elementari quando scoprii De André, da un cd di mio padre… E poi col tempo ho capito quanto fosse amato”, ha raccontato Dragogna. Non una semplice concatenazione di aneddoti, ma il racconto di chi la sua musica l’ha vissuta, l’ha ascoltata, ed a suo modo l’ha fatta sua.
Così Dragogna – noto ai più per essere la chitarra, l’anima, i capelli (e il torso) dei Ministri – prende la chitarra e canta ‘Le nuvole’ e dà il via all’edizione 2025 di ‘Zona Franca‘, il Festival della musica indipendente – che torna in città dopo oltre 10 anni – curato da Ernesto Razzano. Al Giardino del Mago di Benevento, l’artista, ha scelto di non cantare i brani più celebri del cantautore genovese “perché De Andrè non e solo quello…” dice, ma alcuni di quelli più identificativi della sua storia, della sua carriera.
Dagli inizi alle dipendenze, come l’alcol ad esempio. “Un compagno di scrittura” che, per molto tempo (fino al 1985, quando, poche ore prima della morte del padre, De André gli promise che avrebbe smesso), ha fatto parte della sua vita come un elemento silenzioso e inseparabile. Non è stato un semplice vizio. Era il suo modo di resistere, la sua armatura contro il mondo. E fa capire che anche i più grandi della musica italiana vengono da una “cattiva strada”. De André non ha mai nascosto la sua dipendenza, beveva una bottiglia di whisky al giorno, e per lui, come ha raccontato Dragogna, era “un modo di controllare il corpo, di superare le paure”. La paura di non essere all’altezza, di non essere compreso, di fallire. L’artista milanese ha rivelato come, fin dai suoi primi singoli, De André avesse temuto anche di “infangare il nome di famiglia” e così si faceva chiamare semplicemente Fabrizio.
E sono “Amico fragile” e “La domenica delle salme” a chiudere – dopo oltre un’ora e trenta – la serata. Un progetto che esplora e induce a riflettere sull’arte di Fabrizio De André, senza mai essere un memoriale o una lezione. Piuttosto, è un viaggio emotivo e intellettuale che coinvolge lo spettatore con una narrazione e una riflessione che parte dalla sua esperienza personale e arriva a interrogarci tutti su ciò che davvero ha significato l’arte di De André per ciascuno di noi.