Tempo di lettura: 6 minuti

Riceviamo e pubblichiamo una riflessione personale del professore Nicola Sguera, a metà tra sociologia, filosofia e politica, oltre che “pedagogia”, lunga e complessa, rischi di apparire indigesta. La affido comunque alla vostra benevolenza. Sentitevi liberi anche di tagliarla o di pubblicarne solo le parti che vi appariranno interessanti. Comunque grato.

“Prendo spunto da alcune parole pronunziate (mi affido, ovviamente, a quanto ho letto) qualche mese fa dal nuovo Questore di Benevento, il dott. Giovanni Nunzio Trabunella, cui faccio sinceramente i migliori auguri per l’adempimento del suo compito complesso. Tali parole, che evidentemente hanno continuato come un tarlo a scavare in me se sento il bisogno di commentarle, le considero esemplificative di un sentire comune, che istintivamente ci trova tutti d’accordo ma esse, forse, meritano di essere pensate. Il contributo che posso dare proviene esclusivamente dalla pratica quotidiana che da circa trent’anni ho con gli adolescenti. Il Questore ha detto: «Occorre allontanarli [i giovani] dal culto performante dell’Io inculcando loro invece il culto per la morale, l’educazione, i valori». Esiste, dunque, un “culto performante dell’Io”. E su questo come non essere d’accordo? Come non pensare alle memorabili pagine di Christopher Lasch (“La cultura del narcisismo”), uno degli intellettuali più lucidi nel vedere trent’anni fa quello che stava succedendo? Ma, chiedo, se bisogna allontanarli qualcuno li avrà avvicinati a tale “culto” di un Io irrelato, disconnesso dall’Altro, tutto proteso a “sacrificare” a tale idolo pur di nutrirlo e accrescerlo? O loro stessi, autonomamente, si sono avvicinati? Io ritengo che il problema sia sistemico.

I giovani, «la nostra speranza per il futuro», sin dalla più tenera età vengono stimolati ad essere “performanti” (una delle tante parole-mantra dell’epoca che viviamo). Oserei dire (e ripenso alla scena di un film agghiacciante, che andrebbe fatto vedere nelle scuole: “Educazione fisica”) sin dalle recite scolastiche, sin dalle scuole calcio, sin dai corsi di inglese, sin dalle giornate fitte di impegni e dalle richieste pressanti delle famiglie. Il contesto è il “contest”. E i test… non finiscono mai. Con un gioco di parole potremmo dire che la loro vita è tutta contest e con test. Certo, so bene (sono padre di un’adolescente) che a muovere i genitori è il desiderio di garantire ai propri figli benessere e agio in un mondo assai difficile. Allora, mi dico e chiedo, come è possibile da una parte, come fa il Questore, evocare la morale (quale però?), l’educazione (quale però?), i valori (quali però?), e dall’altra accettare che il mondo plasmi i nostri figli con la sua immoralità, la sua ignoranza, i suoi disvalori?

Insomma, la famiglia e la scuola possono farsi carico della titanica opera di affermare «il cuore in un mondo senza cuore»? Non si vocano i poveri adolescenti, cresciuti con pubblicità che li invitano ad avere corpi perfetti ma anche a mangiare continuamente, ad avere macchine meravigliose (e assai costose) ed essere curatissimi e perfetti nelle dentature, nei capelli, nel vestiario, non si vocano, dicevo, ad una inevitabile schizofrenia, chiedendo loro, nel contempo, di essere morigerati, altruisti, dediti al lavoro come valore in sé (faccio solo degli esempi)? D’altronde, la scuola stessa (dove centrale è divenuta un’altra parola-mantra dell’epoca: merito, a partire dall’onomastica del Ministero di riferimento) è essa stessa divenuta, a partire dagli anni Ottanta e sempre più rapidamente, espressione di quello che in psicologia viene chiamato “legame doppio”.

E come potrebbe essere diversamente se, cancellando lentamente (secondo l’aureo modello della “rana bollita”, per evitare resistenze), attraverso riforme (senza colore politico, puramente “tecniche”, dunque tecnocratiche) periodiche, l’idea di educazione che si era affermata nell’ultimo grande ciclo “critico” in Occidente (gli anni Sessanta), la si è sostituita (su indicazione dei pensatoi europei: penso al “Libro bianco” del cattolico-socialista Delors, scomparso da poco) con una scuola al servizio (letteralmente!) del lavoro, la cui “mission” (parola-mantra!) è produrre (letteralmente) lavoratori flessibili (anche con competenze molto alte) e consumatori passivi e soddisfatti (non felici!) in un “mundus furiosus” (Delors prevedeva, da grande intellettuale e politico quale era indubbiamente, un’Europa unita che competesse con altre super-potenze economiche globali). Come mirabilmente racconta Carlo Galli nel suo ultimo, straordinario libro (“Democrazia, ultimo atto?”, Einaudi, 2023), dagli anni Ottanta si sono intrecciate la globalizzazione economica e una nuova forma di democrazia (neoliberista): una vera e propria “religione” fondata sul denaro, i cui templi sono state le banche e le borse. Questo mondo è entrato in crisi (guerre, crisi economica, epidemie, come nel XIV secolo in Europa). Siamo entrati in “terra incognita”.

So bene che la mia analisi può apparire sconfortante. E non cerco alibi. Come educatore ogni giorno mi gioco la mia credibilità prima con ciò che sono, poi con quel che faccio, infine con quel che dico (Romano Guardini). Lo faccio davanti a ragazzi che, comunque, cercano adulti responsabili e parole gravide di senso. Ma so anche, e lo dico ai miei colleghi e a tutte le madri e i padri, che non basta. Perché la pressione del mondo intorno, avido di denaro e di successo, di posizioni apicali e di potere, è troppo forte. Fino a quando la realtà in cui i ragazzi vivono resterà tale noi potremo poco, pochissimo. Anch’io ho creduto per molto tempo, con Edgar Morin, che la scuola potesse essere il punto d’inizio di una trasformazione del mondo o che fosse, quanto meno, la riserva in cui custodire il bello, il buono, il vero. Non lo credo più. La scuola è parte di questo sistema “malato”, malgrado la commovente dedizione di tanti docenti.

Sarà il realismo della maturità. In ogni caso, sono giunto alla conclusione che, senza una revisione complessiva dell’insieme di cui tutti, vecchi, adulti e giovani, siamo parte, ogni strategia “educativa” sia destinata al fallimento, perché confliggente con lo “spirito dell’epoca” (“Zeitgeist”). So anche che ogni educazione (ce lo ricorda la particella “ex” contenuta nel verbo) dovrebbe essere un “tirar fuori” più che un mettere “dentro” (inculcare). I ragazzi non possono essere vasi da riempire (fosse anche di “valori”). E sostituire un culto (quello dell’Io) con un altro culto (quello per i “valori”, ad esempio) potrebbe essere una toppa peggiore del buco. Il compito della scuola dovrebbe essere (ma come spiegarlo ai tecnocrati che la guidano da trent’anni circa, per lo più “banali” esecutori di direttiva calate dall’alto?) quello di nutrire spiriti critici e autonomi (un ideale kantiano), cittadini consapevoli e attivi nello spazio pubblico (un ideale democratico e repubblicano).

Da questo punto di vista, dunque, non posso che rivendicare con orgoglio un risultato inatteso e in controtendenza rispetto al resto della Penisola: l’altissimo numero di iscritti nel Liceo Classico in cui ho l’onore di insegnare, lo stesso in cui hanno educato al pensiero critico e al rigore personalità come Gianni Vergineo o Mario De Agostini. Il Classico, che a molti stolti sembra un cascame d’altri tempi, nella sua non orgogliosa ma fiera rivendicazione del sapere umanistico, della ragione dialettica, dell’“inutile” sovranamente prezioso, mi pare uno degli ultimi baluardi contro la deriva che ho cercato di descrivere. Insomma, per dirla con uno slogan, essere “dentro e contro”: dentro un organismo nei cui interstizi si custodiscono possibilità che fanno sperare e ci inducono all’ottimismo della volontà, contro una struttura burocratica asservita a ragioni altre dall’educare (retta da una razionalità economica e strumentale)”.