In questo giorno di Pasqua, tra pastiere, colombe, casatielli e uova di cioccolato di ogni dimensione, c’è una tradizione antica e genuina che rischia di scivolare nell’oblio: quella del ‘pizzo panaro‘. Ma chi la ricorda ancora? E soprattutto: chi la custodisce e la tramanda con lo stesso amore di un tempo?
Il pizzo panaro è molto più di un dolce. È una piccola opera d’arte della memoria collettiva beneventana. Si tratta di un disco di pan di Spagna ricoperto da una lucida glassa di zucchero – il naspro – e impreziosito da una cascata di confettini colorati, i famosi “diavulill”. Una torta che fa sorridere i bambini e intenerisce i grandi, evocando quei gesti gentili che una volta accompagnavano ogni festività.
Ma non è solo questione di sapore. Il pizzo panaro è anche e soprattutto un simbolo. A Benevento e in provincia veniva tradizionalmente regalato il giorno di Pasqua come segno di pace e affetto. I nonni lo donavano ai bambini ricevendo in cambio un ramoscello d’ulivo, a rafforzare quel senso di scambio e di rispetto tra generazioni. Il nome stesso affonda le radici in un’usanza antica: veniva trasportato all’interno di un cesto, un paniere – in dialetto, il ‘panaro’ – e da lì il nome curioso e affettuoso di “pizzo panaro”.
In alcuni casi, il dolce prendeva persino la forma di una bambola, regalo speciale delle madrine alle proprie figliocce. E allora, oggi che è Pasqua, ci chiediamo: chi conosce ancora questa tradizione? Chi la rispetta, la custodisce, la tramanda ai più piccoli?
Come molte tradizioni dolciarie locali, purtroppo anche quella del pizzo panaro è minacciata dalle preparazioni industriali, sempre più diffuse e standardizzate. Ma nonostante tutto, questa usanza resiste. Persiste nei ricordi di famiglia, nelle mani esperte di chi ancora lo prepara in casa e – fortunatamente – anche in alcuni esercizi commerciali che ne continuano la produzione e la vendita, mantenendo viva la tradizione con passione e rispetto per la cultura del territorio.
Buona Pasqua a tutti. E che un “pizzo panaro” possa ancora trovare spazio sulle vostre tavole… perché le tradizioni non vivono nei libri o nei musei, ma nei gesti quotidiani e nei cuori di chi continua a perpetuarle.