Salerno – L’orrore vissuto nei campi di concentramento di Dachau se lo è portato dentro per tutta la vita. L’ultimo superstite salernitano, Antonio Iacuzzo 95 anni, è morto domenica pomeriggio nell’ospedale di via San Leonardo dove era stato ricoverato. Il Cavaliere è stato un uomo di grandi virtù, ha amato la famiglia, il lavoro e la Patria. È stato insignito di numerose onorificenze tra cui le ultime del Presidente della Repubblica e del Ministro della Difesa. È stato anche autore, insieme al Presidente dell’Associazione Giornalisti Salernitani Enzo Todaro, del libro autobiografico dal titolo “Da Salerno a Dachau”. I funerali di Antonio Iacuzzo si terranno a Calvanico, oggi, alle ore 10, partendo dall’obitorio dell’ospedale di Salerno.
Il 95enne era originario di San Cipriano Picentino, bravissimo intagliatore del legno, per decenni ha vissuto in una palazzina in via Salvatore Calenda, a Salerno. Per venticinque giorni, quando era appena ventenne, fresco diplomato ”marconista”, e da poco arruolato come radio-telegrafista, ha vissuto sulla sua pelle l’inferno di Dachau, il campo della morte. E, miracolosamente, ne uscì vivo. Quei corpi nudi, consumati dalla fame e dal freddo, quegli occhi disperati, quelle lacrime, quegli stanzoni dove erano costretti a dormire, ammassati, tra trucioli di legno e pidocchi, quei tozzi di pane rubati ad altra disperazione, quelle urla straniere, e i calci e le bastonate sono diventati un libro ”Da Salerno a Dachau (matricola 156421)”. «Fui fatto prigioniero a Strasburgo nel settembre del ’43 – raccontava Iacuzzo – I tedeschi mi presero a Sanary, un paesino tra Tolone e Marsiglia. Fino al 29 aprile del ’45, quando fui liberato dagli americani, ho girato numerosi campi di concentramento. Arrivammo a Dachau ad aprile. E capii subito che quel campo era diverso da tutti gli altri: c’era filo spinato dappertutto, sentinelle con i mitra puntati addosso a noi. Ero debilitato, magrissimo, a stento mi reggevo in piedi. Appena arrivai vidi una cicoria selvatica ai bordi del reticolato. Mi ci avvicinai. Ma un tedesco mi aizzò contro un cane che per poco non mi sbranava». «Una mattina mi alzai e vidi davanti a me un tappeto di corpi. In un primo momento pensai che erano altri prigionieri che si erano accampati nell’atrio. Mi misi a camminare tra di loro, cercando di evitarli per non disturbarli. Finchè un uomo mi disse: ”Ma non vedi che sono tutti morti”. Mi spinsi per osservare: erano neri in viso e avevano le bocche digrignate. Forse erano morti tutti avvelenati. Quell’uomo mi disse che eravamo tra i pochi ad esserci salvati perché la sera prima non avevamo cenato. Il rancio era finito e noi non avevamo fatto in tempo». Iacuzzo riuscì a sopravvivere. «Stavo sempre insieme a un ragazzo di Trieste, ci scambiavamo qualche buccia di patata quando riuscivamo a procurarcela. Una mattina lo vidi moribondo. I tedeschi lo avevano caricato su un carretto pieno di cadaveri». Quell’inferno lo ha tenuto chiuso dentro la sua mente per anni. Poi ha deciso di raccontarlo alle nuove generazioni. «Neppure ai miei genitori, quando tornai a casa, a Giffoni Sei Casali, dopo la liberazione degli americani, raccontai niente. Poi ho deciso che era giusto che tutti sapessero cosa si passava lì dentro. Sopratutto i giovani, che non dovranno mai dimenticare».
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