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Il dramma di Lucia Valenzi: “Libara, quante domande che vorrei farti”

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NAPOLI – Lo strazio di una madre per un dramma indicibile. Il 23 marzo scorso è morta suicida la figlia di Lucia Valenzi, figlia a sua volta dell’ex sindaco di Napoli Maurizio e presidente dell’omonima Fondazione. Lucia, dopo aver chiesto un rispettoso silenzio per alcuni giorni, oggi ha scelto di rendere nota la notizia e, su sollecitazioni dei suoi tanti amici, di organizzare un’iniziativa di ricordo aperta alla città. 
Martedì prossimo presso la Fondazione Valenzi, al Maschio Angioino, dalle 17 alle 18,30 si svolgerà l’“Incontro in memoria di Libara”. L’evento vuole ricordare Libara Valenzi. La ricorderanno con brevi performances artistiche gli amici, in particolare il fratello da parte di padre Abdou Fall, il coro dei Vandalia, Rossella Sicignano e altri ancora. Lucia ha poi scelto di rendere pubblica la lettera che ha scritto a caldo nelle notti che hanno preceduto la cerimonia funebre. Ecco il testo della commovente missiva. Pensieri che Libara non potrà purtroppo mai leggere.

“Libara,
ora che sono stordita dopo i primi giorni immediatamente successivi a quando ti sei lanciata nel vuoto da un’altezza senza scampo; ora che ho accantonato il pensiero di interrompere la mia vita svuotata di senso senza di te; ora che ho ricevuto un po’ di anestetico e il calore confortante degli amici intorno;
ora, Libara, anche solo per un attimo voglio dimenticare che non credo a una seconda possibilità, voglio immaginare di incontrarti e di parlarti e di ascoltarti. Ho aperto il tuo cassetto in quella stanza dove avevi deciso di appoggiarti, lontano da me, ho aperto il cassetto delle medicine, tutte intatte.
Possibile che non hai creduto di doverti curare? E perché sembravi e facevi credere che invece eri d’accordo?
Libara quante domande vorrei farti!
La più importante potrebbe essere non una domanda ma piuttosto una preghiera: dammi un po’ di tempo, permettimi di tentare qualche altra cosa, non avere questa terribile fretta. Con un po’ di tempo in più forse avrei potuto trovare la strada giusta per combattere quel demone che ti aveva invaso.
So che un amico te lo ha detto, ora te lo ripeto: sei stata frutto di amore. Una relazione breve, due anni, con tuo padre, africano dal Senegal, che anche lui non è più fra noi da un anno e mezzo. Una relazione in cui ho sinceramente creduto, interrotta proprio dalla tua nascita, dal bisogno di fare programmi e progetti di vita che, che evidentemente non erano possibili, dal momento che lui aveva deciso di non condividerli, ma comunque una relazione d’amore.
Puoi rimproverarmi che irragionevolmente non mi sono fermata davanti a niente. Puoi rimproverarmi che ho voluto rompere una barriera dopo l’altra sulla tua pelle: la sedia a rotelle, l’età di 40 anni, troppo avanzata per avere un figlio, andare a vivere in autonomia da sole senza il padre, ma anche fuori della casa dei nonni, e altre ancora.
Si hai ragione, ho sfidato troppe situazioni e pensato di poter abbattere troppi ostacoli. E gli dei si sono giustamente vendicati.
Eppure la bambina deliziosa che eri faceva credere che tutto era andato bene. Ero fiera di esserci riuscita e avere dato ai nonni una gioia enorme nell’ultima parte della loro vita. Hai goduto della loro devozione incondizionata e hai dato a me e a loro vera felicità.
Forse la perdita dei nonni verso i 12-14 anni ti ha spinto verso quelle crisi di rabbia? Tutti gli adolescenti sono arrabbiati, ma io sentivo che c’era qualcosa di più e me lo hai confermato, ad esempio con quella inquietante abitudine di graffiarti e tagliuzzarti la pelle.
Cosa avrei potuto fare per impedire che da quel momento in poi ti impegnassi a fare terra bruciata intorno a te? A costruire per poi distruggere.
Ho creduto per un momento che eri sola e non avevi nessuno con cui confidarti e invece avevi amicizie belle e profonde. Ragazzi e ragazze che ti piangono disperatamente. Perché il mio amore, il loro amore non ti ha trattenuto? Non ti ha trattenuto nemmeno il gusto per il cibo buono, per la musica buona, per tante altre cose buone della vita, di cui spesso abbiamo goduto anche insieme. E intanto dimostravi di saper creare delle cose dalle tue mani, di avere una voce bella per cantare, un corpo pieno di ritmo per danzare, un gusto fine per l’arte, una capacità, ahimè inutilizzata, per logica e scienze.
Negli ultimi anni ho assistito con terrore e in perfetta solitudine allo spettacolo di te che ti avvitavi in situazioni sempre di più senza via d’uscita.
Abbiamo tentato almeno cinque volte delle psicoterapie, ma non una è servita. Hai scelto di sprofondare in relazioni sempre più sbagliate in un gorgo di autodistruzione, ma tu lo scambiavi per il suo contrario: un volo verso la leggerezza. Si può pensare dall’esterno che la tua fine sia stata istantanea, ma noi due sappiamo che sei stata divorata progressivamente da questo male. Eppure mentre morivi continuavi a trasmettere bellezza e gioia.
A settembre la polizia ferroviaria di un Comune del Lazio mi chiamò per avvisarmi che ti avevano trovato che camminavi a piedi nudi lungo i binari, che avevi resistito e ti avevano portato a forza in ambulanza all’ospedale di Frosinone. Ricordavi bene in seguito che erano due notti e un giorno che vagavi senza meta, in preda alle allucinazioni e nel delirio assoluto. Arrivai in auto di corsa, ma mi mandarono a casa: mi fu proibito vederti e sentirti per cinque interminabili giorni, mentre eri sedata e legata per il Trattamento Sanitario Obbligatorio, poi ho sentito la tua voce come venire da un luogo lontano, irraggiungibile.
Ancora una volta ho sperato potesse essere quella la porta per uscire dall’inferno, accedere finalmente a delle valide cure.
Chissà in futuro se troverò la forza per dire al mondo come il sistema psichiatrico-burocratico ci ha abbandonato senza rimorsi alla nostra sorte.
Vedo che non mi rispondi. Del resto cosa potresti dirmi?
Se non che la tua mamma non ce l’ha fatta a salvarti”.
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