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Napoli – Il sacrificio del boss per porre fine alla faida tra i clan di Pianura. «Giuseppe Mele voleva consegnare una pistola a mio cugino Salvatore Marfella. Se mi avesse ucciso avrebbe ottenuto in cambio il comando delle palazzine di via Cannavino. Con la mia morte sarebbe stata sancita la pace tra i Marfella e i Mele». Il ras, però, rifiutò l’incarico e la scia di sangue continuò ad allungarsi per altri tre interminabili anni. Il boss Pasquale Pesce “’e Bianchina” sapeva da tempo di essere nel mirino dello storico clan rivale e oggi, all’indomani del suo pentimento, ha deciso di raccontare quell’inquietante retroscena agli inquirenti dell’Antimafia.
La vicenda è stata messa a verbale nel corso del primo interrogatorio reso dal 41enne capoclan pianurese. Pasquale Pesce, infatti, dal 12 luglio scorso ha deciso di chiudere con il suo passato da camorrista per guadagnarsi lo status di collaboratore di giustizia. Il 41enne “’e Bianchina” in queste settimane ha già fornito delucidazioni importanti su almeno due omicidi, vale a dire quelli di Giuseppe Perna e Luigi Aversano, e si dichiara pronto a risolverne almeno un’altra dozzina. L’ormai quasi ex boss – il suo status di pentito non è ancora ufficiale – ha però svelato anche un ulteriore retroscena. Una vicenda non culminata in un fatto di sangue ma non per questo meno significativa. Con la consueta premessa che tutte le persone tirate in ballo sono da considerare del tutto estranee ai fatti almeno fino a prova contraria, ecco le parole di Pasquale Pesce. Incalzato dagli interrogativi del sostituto procuratore della Dda Francesco De Falco, “’e Bianchina” avvia il suo racconto partendo da un inquietante episodio avvenuto a Pianura la notte del 31 dicembre 2014, vale a dire l’incendio dell’Alfa “Mito” di Grazia Padulano: «Si trattò – spiega – di un’iniziativa di mia cugino Salvatore Marfella e di Giuseppe Foglia, i quali agirono come ritorsione per un precedente episodio. Salvatore Talamo e Luigi Aversano, con la benzina fornita da Vincenzo Birra su incarico di Giuseppe Mele e Raffaele Dello Iacono, avevano incendiato la Smart di Daniele Totaro che in quel periodo utilizzava ogni tanto anche Salvatore Marfella, da poco uscito da carcere». Stabilito il contesto, sul quale fornirà poi ulteriori delucidazioni, il neopentito arriva dunque al cuore della vicenda, cioè la decisione del clan rivale di eliminarlo: «Quando Marfella divenne libero, nel 2013, ebbe dei contatti con Giuseppe Mele a casa di una signora di via Pignatiello. Salvatore Marfella mi informò preventivamente di quest’incontro perché voleva garantirsi la possibilità di gestire una pizza di spaccio in tranquillità. All’incontro erano presenti, armati, Giuseppe Mele e i suoi affiliati Antonio Calone, Antonio Bellofiore “Pulliciello”, Enrico Casolaro e altri. Salvatore Marfella era invece da solo».
Ma Giuseppe Mele, all’epoca reggente della cosca avversaria insieme al fratello, non si sarebbe limitato a parlare di affari. «Marfella mi riferì che Giuseppe Mele gli aveva proposto di dargli una calibro 38 per uccidermi e in cambio avrebbe avuto il comando delle palazzine di via Cannavino e delle relative piazze di spaccio. Marfella si rifiutò e Mele non la prese bene. Per come ho potuto ricostruire, la mia morte doveva essere in realtà il sacrificio per la pace tra i Marfella e i Mele». Sta di fatto che le conseguenze a quel diniego non si fecero attendere: «In seguito al rifiuto di uccidermi, Giuseppe Mele incendiò la macchina Smart di Marfella affermando “digli a tuo padre che questa è la risposta. Da lì in avanti Salvatore Marfella iniziò a far parte del clan con un ruolo di rilievo, anche se ero sempre io ad avere l’ultima parola». E la faida tra le famiglie di Pianura andò avanti per altri due interminabili anni.
Luigi Nicolosi