I poveri assoluti sono saliti nel 2017 poco sopra i 5 milioni, di cui quasi 2,4 milioni nel solo Mezzogiorno (8,4% e 11,4% dell’intera popolazione rispettivamente). Le famiglie in povertà assoluta nel 2016 erano 700 mila nel Mezzogiorno, sono divenute 845 mila nel 2017.
Questo è solo uno degli indicatori presenti nel rapporto SVIMEZ per il 2018, presentato ieri a Roma, che mette in evidenza come, nel più generale rallentamento dell’economia italiana, si riapra la forbice tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Rispetto ad agosto, nel 2018 si prevede, infatti, una minore crescita del PIL italiano: +1,2% invece di +1,5%. Il saggio di crescita del PIL dovrebbe attestarsi all’1,3% nel Centro-Nord e allo 0,8% nel Mezzogiorno. Nel corso dell’anno gli investimenti, che sono la componente più dinamica della domanda, crescono in entrambe le aree, ma in maniera più marcata al Nord: +3,8 nel Sud, +6,2% nel Centro-Nord. Ma è soprattutto la riduzione dei consumi totali, che crescono nel Mezzogiorno dello 0,5% e al Centro Nord dello 0,8%, ad incidere maggiormente sul rallentamento meridionale.
E ancora la fuga dei giovani.
Mentre, dopo il calo del 2017, anche i dati della spesa europea confermano che nell’anno in corso non c’è stata alcuna accelerazione delle spese in conto capitale, scontando le difficoltà delle Amministrazioni, soprattutto locali, nell’erogare i maggiori stanziamenti previsti nelleultime leggi di bilancio. L’export meridionale a fine 2018 si prevede segni +1,6% rispettoal +3% del Centro Nord. Infine le unità di lavoro salgono dell’1% nelle aree meridionali e dello 0,8% nelle regioni centrali e settentrionali.
Entrando nel dettaglio, nel 2017, Calabria, Sardegna e Campania sono le regioni meridionali che hanno fatto registrare il più alto tasso di sviluppo, rispettivamente +2%, +1,9% e+1,8%. Si tratta di variazioni del PIL comunque più contenute rispetto alle regioni del Centro-Nord, se confrontate al +2,6% della Valle d’ Aosta, al +2,5% del Trentino Alto Adige, al +2,2% della Lombardia.
Appare preoccupante la contrazione della spesa pubblica corrente nel periodo 2008-2017, -7,1% nel Mezzogiorno, mentre è cresciuta dello 0,5% nel resto del Paese.
Importante sottolineare quanto Nord e Sud dipendano l’una dall’altra. 20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle regioni meridionali dal bilancio pubblico ritornano al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e servizi. La SVIMEZ stima che la domanda interna per consumi e investimenti del Mezzogiorno attiva circa il 14% del PIL del Centro-Nord.
C’è ancora una forte disuguaglianza territoriale. L’ampliamento delle disuguaglianze territoriali sotto il profilo sociale riflette un forte indebolimento della capacità del welfare di supportare le fasce più disagiate della popolazione. Gli indicatori sugli standard dei servizi pubblici fotografano, secondo la SVIMEZ, un ampliamento dei divari Nord-Sud, con particolare riferimento al settore dei servizi socio-sanitari che maggiormente impattano sulla qualità della vita e incidono sui redditi delle famiglie. Come testimonia il dato sul grado di soddisfazione dei cittadini per l’assistenza medico ospedaliero: al Sud solo 143 mila su 530 mila ricoverati lo sono (il 27%), nel Centro-Nord 566 mila su 1.270 mila (il 44,6%).
La cittadinanza “limitata” connessa alla mancata garanzia di livelli essenziali di prestazioni, incide sulla tenuta sociale del Sud e rappresenta il primo vincolo all’espansione del tessuto produttivo. Ancora oggi a chi vive nelle aree meridionali, nonostante una pressione fiscale pari se nonsuperiore per effetto delle addizionali locali, mancano, o sono carenti, diritti fondamentali di cittadinanza: in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la persona adulta e perl’infanzia.
Un caso eclatante: l’abbandono scolastico e il basso tasso di occupazione dei laureati. La SVIMEZ denuncia una marcata divaricazione tra partecipazione all’istruzione e scolarizzazione. Nella scuola primaria, nell’anno scolastico 2016/2017, il tempo pieno c’è stato in oltre il 40% degli istituti del Centro-Nord, mentre al Sud ha riguardato appena il 16% delle scuole e addirittura il 13% nelle isole.
Inoltre, i tassi di partecipazione al Sud sono sì superiori al 95%, ma il tasso di scolarizzazione dei 20-24enni è notevolmente inferiore, a causa di un rilevante e persistente tasso di abbandono scolastico. Nel Mezzogiorno sono circa 300 mila (299.980) i giovani che abbandonano , il 18,4%, a fronte dell’11,1% delle regioni del Centro-Nord. E i valori più elevati si registrano per i maschi, addirittura il 21,5% nel Sud.
Nel Mezzogiorno sono presenti livelli qualitativamente inferiori, dai trasporti, alle mense scolastiche, ai materiali didattici. Sul tasso di apprendimento al Sud pesa anche il contesto economico-sociale e territoriale: la disoccupazione, la povertà diffusa, l’esclusione sociale, la minore istruzione delle famiglie di provenienza e, soprattutto, la mancanza di servizi pubblici efficienti influenzano i percorsi scolastici e l’apprendimento.
Il basso tasso di occupazione per i diplomati e i laureati nel Mezzogiorno a tre anni dalla laurea è testimoniato, secondo la SVIMEZ, da questi dati: appena 70 mila su 160mila (43,8%), contro i 220 mila su 302 mila (72,8%) del Centro Nord. Ciò spiega perché negli ultimi 15 anni c’è stato un aumento dei giovani del Sud emigrati verso il Centro-Nord e/o l’estero: nell’anno accademico 2016/2017, i giovani del Sud iscritti all’università sono circa 685 mila circa, di questi il 25,6%, studia in un ateneo del Centro-Nord. Nello stesso anno accademico il movimento “migratorio” per studio ha interessato, quindi, circa il 30% dell’intera popolazione rimasta a studiare in atenei meridionali.
Ciò, secondo la SVIMEZ, comporta, oltre alla perdita di capitale umano, una minore spesa per consumi privati, in diminuzione al Sud, e una minore spesa per istruzione universitaria da parte della Pubblica amministrazione.
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