In libreria “Il terzino e il Duce”, la sorprendente biografia dedicata all’allenatore rimasto più a lungo (236 volte) sulla panchina degli azzurri. Fascista convinto, sfruttò la sua amicizia con Mussolini per salvare alcuni partigiani condannati a morte. Il rapporto con Achille Lauro, ‘O Comandante.
A Napoli, e al Napoli, dell’allenatore Eraldo Monzeglio (1906-1981) si ricorda con certezza una cosa. Sulla panchina degli azzurri, è quello del numero che indica un record imbattuto, importante: vale a dire 236 presenze. Nessuno come lui, neanche Garbutt e Pesaola (200), Amedeo Amedei (164) e Mazzarri, a quota 157. Monzeglio, pezzo di storia del pallone partenopeo, è l’uomo che portò il Napoli dalla Serie B alla Serie A, con una festa, il 18 giugno 1950 allo stadio Collana — la bombonera dell’epoca, al Vomero — i cui rimbombi echeggiano ancora sul Golfo.
Ma questo austero mister (così innamorato di Napoli e del Napoli tanto da non presentarsi in panchina ma restando in tribuna quando poi, quasi in lacrime durante la partita, tornò al San Paolo ma stavolta alla guida della Samp) nato a Casale Monferrato è stato molto altro, soprattutto un’inimmaginabile vita spericolata all’ombra del Duce. Una vita che attraversa tutto il Ventennio e soprattutto gli anni feroci della guerra civile, quelli tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. A raccontare la sua biografia, sorprendente, con un libro edito da Solferino — «Il terzino e il Duce», già in distribuzione — è Alessandro Fulloni, giornalista al Corriere della Sera, dove si occupa di cronaca.
Negli anni Trenta, Monzeglio fu un celeberrimo calciatore, difensore tanto grintoso quanto elegante con la Roma e con il Bologna. Con l’Italia di Vittorio Pozzo, vinse i Mondiali nel 1934 e nel 1938. Conobbe Mussolini e gli insegnò a giocare a tennis. Set dopo set, la confidenza crebbe sempre più, tanto da entrare nella famiglia del dittatore come una specie di «fratello maggiore» di Vittorio e Bruno, il secondo e il terzo figlio di Mussolini.
Sempre più fascista, Monzeglio partecipò alla campagna di Russia — «però senza uccidere nessuno» disse poi orgoglioso — e fu accanto al Duce durante il periodo cupo della Rsi. Ma a Salò l’ex terzino azzurro, uomo che seguiva la voce della coscienza, ebbe contatti poderosi con la Resistenza, sfruttò la sua vicinanza con il dittatore per strappare alla morte e alle torture alcuni partigiani catturati dalle Brigate nere e dalle Ss. Portò in salvo, accompagnandoli alla frontiera con la Svizzera, degli ebrei inseguiti dai nazisti. Fu forse a conoscenza dei segreti dell’oro di Dongo e dei risvolti misteriosi sull’uccisione di Mussolini.
«Il terzino e il Duce» racconta anche altro, a partire dagli anni che Monzeglio visse a Napoli. Dal rapporto contrastato con Achille Lauro, ‘O Comandante, a quell’amore-odio con Antonio Bacchetti, ‘O Cammello, ex partigiano e talentuosa ala, idolo dei tifosi. E poi la generosità del «mister»: che senza dire niente a nessuno ogni settimana lasciava una somma di denaro a un ospizio, vicino alla chiesa dei Girolamini, i cui ospiti non avevano più nessuno che li aiutasse.