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Le foto del figlio del boss di Bagnoli, davanti a una tavola imbandita con gamberoni, scattate all’interno di una cella, pubblicate da un profilo anonimo su TikTok, è solo l’ultimo caso di una lunga serie di utilizzo dei social attraverso telefonini dal carcere”. Lo sostiene Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria, ricostruendo, attraverso un report, i casi più eclatanti, dell’ultimo anno e mezzo.
Tra i primi il ‘noto’ videoclip del rap “Baby Gang” girato a San Vittore, seguito dalla performance dal carcere di Terni dei tre detenuti campani appartenenti ad un clan camorristico trasformati in cantanti neomelodici; il video girato a Poggioreale con detenuti che mangiano un gelato e mostrano uno spinello – elenca in una nota – i video realizzati dal capo clan pugliese agli arresti domiciliari che con musica neomelodica di sottofondo, in compagnia di altre persone, ha ostentato ingenti quantitativi di denaro in contanti; i 163 video del detenuto-cuoco del solito carcere campano; a Pavia con spettacolo di canto e ballo; ancora a Terni, con il volto parzialmente coperto da sciarpe, tra cui un efferato assassino, cantano canzoni neomelodiche e fanno festa con una pizza appena sfornata; sino al recente filmato “virale” delle devastazioni nel carcere minorile di Torino in una delle tante rivolte degli ultimi mesi con l’annuncio ‘abbiamo preso le chiavi'”.
Sui social – evidenzia Di Giacomo – c’è un’ampia possibilità di scegliere cosa vedere, secondo vere e proprie sezioni di scelta, tra “carcerati che fanno i TikTok”, “video dei carcerati”, “detenuti in carcere fanno video” e persino “diretta dal carcere”. La cella del carcere è sempre più la location preferita per fare spettacolo. Ma ciò che più ci sconcerta è che solo in queste occasioni i media scoprono l’acqua calda e cioè che nelle carceri sono diffusi i telefonini anche quelli più moderni e tecnologicamente avanzati finiti persino nelle mani dei giovanissimi oltre che di boss, capo clan ed affiliati che hanno facile accesso ai social. Mettiamoci semplicemente nei panni di chi ha subito l’uccisione di una figlia, una violenza, una rapina che assiste allo spettacolo dell’aggressore per rendersi conto del sentimento di forte indignazione e più che legittima rabbia che serpeggia”.