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In principio Napoli e la Campania furono avanguardia della rivoluzione nella psichiatria italiana. Partendo dalla comunità terapeutica di Materdomini a Nocera Inferiore, con la lotta di Sergio Piro dagli anni ’60 in poi, per l’umanizzazione delle cure. Una battaglia proseguita nelle sue tappe al Leonardo Bianchi e al Frullone, in un movimento culturale sfociato nella Legge Basaglia (la 180/78) per la chiusura dei manicomi. Ma ora “a Napoli nella psichiatria si è fatto un salto indietro di 80 anni, all’immediato dopoguerra” denuncia lo psichiatra Antonio Mancini, saggista e allievo di Piro.

“Oggi – spiega il medico – si è tornati a una psichiatria biologica e biologista. Questo si deve alla economizzazione e finanziarizzazione della salute, per cui le vecchie Unità sanitarie locali (Usl), che per quanto dominate da un politico corrispondevano a un territorio, sono invece diventate aziende. E anche all’affermarsi sempre più forte delle tecniche di manipolazione del cervello attraverso le medicine”. Il motivo? “Perché – sostiene Mancini – il mandato che hanno avuto le psichiatrie tradizionali è quello di rimettere in sesto le persone per reinserirle nel ciclo produttivo, non più di curarle. Il senso della cura delle persone significa un’analisi del territorio e un allargamento dei diritti delle persone che sono sul territorio”. Mancini parla di una deriva implacabile.

Il grande vantaggio della legge 180 – afferma –  fu che, in Italia, sia al nord con Franco Basaglia che al sud con Sergio Piro non poteva più farsi una psichiatria come una scienza positiva, cioè associata a una malattia come le altre, ma doveva essere inserita nel contesto sociale e storico delle persone”. Una conseguenza di quel mutamento: con “l’apertura dei servizi di salute mentale, non più centri di igiene mentale, la Regione Campania nel gennaio 1983, con la legge 1/83, si dotò di una norma che prefigurava un’assistenza completa nell’arco delle 24 ore, un fatto fondamentale. Ciascun centro di salute mentale, agganciato ad una Usl poteva curare e fare prevenzione su un territorio circoscritto”. Della legge regionale Piro fu il padre. Tuttavia quell’era sembra archiviata. “L’intervento nelle 24 ore – accusa Mancini -, dieci anni fa, è stato chiuso, prima con l’aziendalizzazione, quando le unità operative sono state agganciate all’Asl, e hanno perso il loro carattere di territorialità, perché dovevano corrispondere a criteri meramente economici, poi sono state svuotate”. Risultato: “Oggi la psichiatria è un guscio vuoto, perché ha pochi psichiatri che lavorano al suo interno, pochissimi infermieri, pochissimi psicologi, un paio di assistenti sociali che, in realtà, fanno pratiche per la pensione. E non fanno più assistenza nell’arco delle 24 ore”. In sostanza “se una persona si sente male di notte, viene portata in un servizio di diagnosi e cura, cioè un reparto ospedaliero, che oggi a Napoli sono soltanto due. Mentre prima erano cinque, ed erano a cavallo tra due unità confinanti”. Lo psichiatra è certo: “Così si ritorna a una concezione dell’800 e del 900 per cui la malattia mentale è la malattia di un cervello che funziona male”. L’appello, invece, è di “ricominciare a discutere della legge 1/83, aggiornandola, cominciando da una formazione fatta bene, come la faceva Sergio Piro”. Un’eredità da non disperdere.