Non è raro che, nel mondo del calcio, si tiri in ballo la fortuna. Rimpalli fortuiti, deviazioni fortunose, tiri fortunati: al caso è spesso riconosciuto un ruolo determinante. Una componente aleatoria che sembra trovare la sua massima espressione in uno dei fondamentali più affascinanti, e allo stesso tempo più drammatici, di ogni livello del calcio: il calcio di rigore. Nei rigori come in nessun’altra situazione viene riconosciuta un’altissima percentuale di fortuna: la fortuna di indirizzare il pallone in un certo modo o, a parti invertite, di intuirne la traiettoria; la fortuna della sfera che passa a un soffio dalle dita del portiere o, nuovamente a parti invertite, la sfortuna dello stesso soffio. Non a caso online abbondano dichiarazioni di giocatori che, in merito a una vittoria o a una sconfitta ai rigori, fanno riferimento a caso e buona sorte.
Naturalmente le cose non sono assolutamente così semplici, anzi; dietro i calci di rigore trovano applicazione rilievi statistici, approcci psicologici, strategie di vario tipo e studi specifici. Certo, la fortuna conta; ma, alla prova dei fatti, è ben lungi dall’essere l’assoluta protagonista di un calcio di rigore.
Una delle sfide ai rigori più epiche degli anni 2000, principalmente per il modo in cui è maturata, è quella che ha visto contrapposte Milan e Liverpool nella finale di Champions League 2005. Fra le tante scene indelebili nella memoria dei tifosi, soprattutto quelli rossoneri, c’è il balletto che il portiere polacco del Liverpool, Jerzy Dudek, ha compiuto sulla linea di porta prima di ogni tiro milanista: fra questi, quelli sbagliati sono stati di Serginho, Ševčenko e persino di uno specialista come Pirlo. Le gestualità del portiere erano mirate a deconcentrare i tiratori avversati, riproponendo una strategia ben nota tra gli estremi difensori e vista in numerose altre occasioni. Il confine tra strategia e semplice fortuna in molti casi è decisamente sottile, e a un occhio poco attento potrebbero sfuggire le differenze che separano l’una dall’altra. Non a caso sui calci di rigore si fa spesso un parallelo con il poker: anche nel poker si ritiene spesso che sia fondamentale la fortuna, quando invece, esattamente come nei rigori, non si può tralasciare il ruolo centrale ricoperto da strategia e preparazione. Balletti, linguacce e simili rappresentano l’equivalente calcistico della poker face e del linguaggio del corpo.
Ruolo fondamentale nei rigori, e spesso confuso con la fortuna, è poi ricoperto dall’allenamento. I calci di rigore sono appositamente preparati, tanto per i portieri che per i calciatori di movimento, e spesso i manager sottolineano l’importanza di tali momenti. Luis Enrique, in occasione degli ultimi Mondiali, aveva chiesto ai giocatori della selezione spagnola di presentarsi con almeno 1000 rigori calciati in allenamento; il portiere olandese Tim Krul, protagonista di un’iconica sostituzione ai Mondiali del 2014, è finito sulla lista nera del CT Van Gaal perché avrebbe rifiutato di partecipare a una specifica sessione di allenamento. Allenamento che, nel caso dei portieri, coincide spesso con lo studio di dati statistici: non è raro che prima dei rigori gli estremi difensori possano contare su un bagaglio di nozioni illustranti le probabilità circa il comportamento e le scelte dei tiratori che dovranno affrontare.
Infine, la componente psicologica riveste nei rigori un ruolo importantissimo: la figura del mental coach, esperto della materia che affianca diversi sportivi, nel calcio si interessa anche di queste situazioni per il loro carico di stress. Gonzalo Higuaín, recentemente ritiratosi, è sempre stato un calciatore particolarmente emotivo: in occasione di un Napoli – Lazio del 2015 l’argentino calciò un rigore sopra la traversa, e in proposito uno psicologo dello sport evidenziò che tale errore, identico a uno precedente, era senz’altro conseguenza di quest’ultimo sullo stato mentale del calciatore. Di segno opposto si può pensare alla prestazione monstre con la quale Francesco Toldo si distinse nella semifinale di Euro 2000, giocata contro l’Olanda. Per lo stesso estremo difensore veneto la sua prestazione, durante la quale neutralizzò la maggior parte dei penalty olandesi, era figlia di un’estrema fiducia nei propri mezzi: anche gli errori degli avversari, con palloni calciati sul palo o a lato, erano da imputare al senso di insuperabilità trasmesso per l’occasione dal portiere italiano. Nella stessa circostanza, peraltro, un’altra dimostrazione di fredda psicologia venne da un altro giocatore in maglia azzurra: Francesco Totti. Fu il capitano della Roma a ritenere perfetta l’occasione per riesumare il rigore alla Panenka, dal cognome del calciatore ceco che per primo lo rese famoso: il colpo lento e a parabola – da allora ribattezzato “cucchiaio” – risultò impossibile da prevedere per il portiere olandese, umiliato da una traiettoria inimmaginabile. Ennesima dimostrazione di come anche la psicologia, nei rigori, sia tutt’altro che secondaria.