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Esiste la giustizia giusta? Quella che soddisfa tutti, vittime e carnefici, dispensando punizione e conforto? O la giustizia non può che essere un compromesso a cui tendere e mai raggiungibile tra diritto ed etica?

La risposta in una eroina di 2500 anni fa, Antigone di Sofocle.

L’eterno dilemma tra diritto e giustizia  trova la sua genesi  nella natura ancipite del concetto stesso di giustizia, “immanente e cogente” nelle leggi scritte e giuridicamente vincolanti, “trascendente” nell’apparato delle leggi morali, l’umano sentire.

Il Nomos, il diritto positivo (la legge), è il frutto della continua trasformazione della società e rispecchia le esigenze, i valori e le istanze di una collettività in divenire.

Quindi l’umano sentire (il rumore delle coscienze) è l’abbrivio dell’evoluzione del diritto per la regolamentazione di un determinato fenomeno sociale.

Ed ecco che, ancora una volta, viene in aiuto la tragedia greca per la sua capacità non di essere attualizzata ma di essere attuale sempre, di reiterarsi perché, come dice la scrittrice Valeria Parrella “occorre trovare solo le porte che girano sui cardini di sempre”.

Nomos e physis, diritto positivo e legge non scritta, quella del cuore, un unico nome: Antigone, la figlia di Edipo re di Tebe, la “nata contro”, che si impone, pur soccombendo, contro Creonte legislatore, in essi si concentra l’eterno dialogo tra legge scritta e coscienza sociale.

Creonte che difende la cieca legalità ed Antigone che obbedisce solo alla legge morale della coscienza.

Polinice, fratello di Antigone, giace insepolto fuori delle mura della città di Tebe.  Ha mosso l’esercito contro il fratello Eteocle allo scadere dell’anno che lo vedeva reggente della città. Creonte il nuovo re, cognato di Edipo, impedisce severamente che Polinice venga sepolto, traditore della patria in quanto, alleatosi con Argo, intende conquistare Tebe. Antigone si rifiuta di rispettare il divieto imposto da Creonte, e celebra personalmente i riti funebri in onore del fratello. Scoperta, viene trascinata di fronte al re, intenzionato a condannarla a morte: ha così inizio un dialogo serrato, basato sullo scontro di due punti di vista inconciliabili.

Antigone difende il suo diritto alla sepoltura, il diritto di piangere il fratello morto.

 

“…CREONT1[i] Ma devastando questa terra; e l’altro si batteva in sua difesa.

       ANTIGONE Tuttavia l’Ade questi riti brama.

CREONTE Ma il buono non è pari al cattivo nell’ottenerli.

ANTIGONE Chi sa se sotterra è questa la pietà?

CREONTE Ma il nemico non è mai caro, neppure quando sia morto.

ANTIGONE Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore.

        CREONTE E allora, se devi amare, va’ sotterra e ama quelli di là;…”[1]

 

Antigone e Creonte sono convinti di avere ragione entrambi e i loro punti di vista sono tanto diversi, quanto ugualmente difendibili.

Se per un attimo  diventiamo Antigone allora siamo l’eroina che combatte contro l’ostinazione di un tiranno dispotico, per il quale salus rei publicae est suprema lex; se invece diventiamo Creonte, allora Antigone è una pazza e noi i difensori responsabili e custodi dell’unità della città.

Alla fine Antigone muore e soccombe: la legge è sempre sovrana e il suo rispetto è alla base di una solida forma di governo.

Eppure il cuore va verso di lei, perché la legge del cuore obbedisce a regole diverse e non è scritta in nessun codice, non è rigida, ma semplicemente umana.

È la stessa legge in nome della quale  anche oggi Antigone sopravvive e vive nell’anima di chiunque si batte per l’affermazione dei diritti umani, di chiunque si batte contro qualsiasi forma di razzismo o sessismo, di chiunque si batte per la libera stampa, di chiunque  sostenga l’apertura delle frontiere per non lasciar morire le centinaia di vittime in fuga da guerre, epidemie o disastri sociali.

Creonte vince e forse è l’eroe perché fa rispettare la legge della città, ma Antigone gode del privilegio di essere sconfitta, invitando ad una riflessione interiore, quella dell’obbligo morale di restare umani o quello di non dimenticare l’umanità che ci contraddistingue.

Allora alla domanda, esiste una giustizia condivisa? Più giusta la ribelle Antigone o  l’uomo di potere Creonte?

Certo è che, se l’essere giusti è una aspirazione a cui tendere, è un “oltre” non raggiungibile, né Antigone né Creonte possono essere la risposta.

La risposta esatta sembra non esistere.

Geniale Socrate che lascia aperto il dilemma.

Tuttavia, le istanze della nostra società sono consacrate nei supremi principi nella  Carta costituzionale  e la spinta della società civile sta nella attuazione concreta degli stessi e nella loro trasformazione in legge scritta.

Il popolo deve sentire come proprie le leggi dello Stato non come imposte dall’alto, ma come risposta alla condivisione di un sentimento comune e delle istanze sociali che spingono per il loro riconoscimento.

In questo modo l’osservanza delle leggi da parte dei cittadini  non dipende dal mero timore della sanzione imposta, ma discende dalla intima convinzione della giustezza della norma stessa.

L’antinomia rappresentata dallo scontro di Creonte ed Antigone può essere sciolta solo nella corretta applicazione ed interpretazione della norma scritta in sede di giudizio.

L’immagine del componimento di questo eterno dilemma è rappresentata dallo scudo di Achille, forgiato da Efesto e descritto da Omero nel XVIII libro dell’Iliade, la cui forma circolare “costituisce una metafora interpretativa della vita sociale della polis greca e della struttura pacificante del processo…”.

La scena descritta sull’egida dell’eroe rappresenta, dunque, “una straordinaria anticipazione dell’equa amministrazione della giustizia, la cui struttura giuridica si esibisce in almeno quattro momenti fondamentali: la contestazione della lite; il contraddittorio tra le parti; la prova dei fatti; il giudizio del terzo. Il processo è il fenomeno più importante della città della pace, nella quale viene raffigurato il momento culminante del giudizio.”[2] 

Ed ecco che il processo diviene la sede non solo dell’accertamento della verità, ma il luogo in cui trova spazio l’evoluzione del diritto e dell’accoglimento delle istanze della coscienza sociale, dove si compone il conflitto tra nomos e physis.

Al giudice, dunque, spetta l’arduo compito di sciogliere queste antinomie  ottenendo  la sintesi tra norme scritte ed esigenze sociali.

Principio questo che  è stato consacrato dal processo di Norimberga, in occasione del quale coloro che a vario titolo avevano collaborato con il regime nazista furono condannati nonostante avessero rispettato il diritto positivo e la legge del loro paese, la Germania, legge alla quale i gerarchi dovevano rispondere.

I crimini contro l’umanità furono puniti perché crimini commessi contro la pace e in violazione di leggi non scritte, ma principi internazionalmente riconosciuti e sentiti come cogenti perché appartamenti all’uomo ed intrìnsecamente connessi al suo essere.

Prof. Giovanna Ferraioli, docente di latino e greco presso l’Istituto Liceo Don Carlo La Mura di Angri –  Avv. Leopoldo Catena – Camera Penale di Salerno.

[1] Sofocle, Le tragedie, trad. di R. Cantarella, Mondadori, Milano 2007

[2] Paolo Moro, “Lo scudo di Achille. Il processo come archetipo della pace”, in Mediares – Rivista su trasformazione dei conflitti, cultura della riparazione e mediazione. ISSN 1723-3437, https://mediaresrivista.it/