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Campi di girasoli, in lontananza un casolare abbandonato, distese di vigneti, casa. Michele osserva dal finestrino la vita tornare indietro. Erano le 7 del mattino quando ha raggiunto insonnolito la stazione di Monza. Un cornetto veloce, un cambio a Milano, poi il diretto verso quel Mezzogiorno che a lungo è stato suo. Lo attendono i poster della vecchia cameretta. Sono ormai passati quattro anni dalla sua partenza ma mamma Silvana li ha lasciati appesi al muro. Sembrano aver voglia di parlare con un vecchio amico, uno di quelli che incroci improvvisamente per strada dopo mesi.

Sulla parete destra Ceravolo esulta dopo il gol al Frosinone, dolorante ma felice di una gioia immune al peso degli anni. Poco più in là, al centro, il piccolo Salvatore Di Vita guarda un film con gli occhi lucidi. Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore è da sempre il suo preferito. Ed è curioso che in questi chilometri che lo separano da Benevento, dai suoi affetti e dal suo passato, Michele si soffermi proprio sui nomi del protagonista e del regista. Salvatore Di Vita, Tornatore. Lo identificano, parlano di lui, emigrato nel profondo nord per salvare la sua, di vita, per salvarsi da solo. Fino ad essere un rientrante come tanti, come troppi della sua generazione.

Il treno macina chilometri e i pensieri fanno lo stesso. Una volta a casa, mamma e papà gli chiederanno se c’è la piccola speranza di un riavvicinamento. Proveranno a illudersi ancora una volta. Gli amici saranno curiosi di sapere come si sta ottocento chilometri più su, lo interrogheranno sulle esperienze vissute, su quanto gli manchi l’aria di casa al calar della sera. Se gli capita ancora di ripensare ai giochi di società nei freddi inverni. O alle partite a pallone nelle tante primavere adolescenziali trascorse insieme. Ai tempi in cui la comitiva era di venti persone pronte a girare la provincia come se fosse il mondo intero. Ora che è tutto così lontano. Che la maggior parte di loro è fuggita per nuove avventure, ognuna in un posto diverso senza la possibilità di incrociarsi.  

Sarà dura rispondergli, accantonare la nostalgia, sottolineare che nonostante tutto no, qui non potrebbe più tornare. Che per quanto siano forti le emozioni, la sua vita viaggia ormai a una velocità diversa rispetto al blando fluire del tempo a cui è rimasta ancorata questa terra. La sua terra, pervasa dalla pigrizia dei Regionali, dalla fiacchezza delle infrastrutture che ne bloccano lo sviluppo smentendo ataviche promesse mai mantenute. Dalla realtà fatta di stipendi da fame, di attività che chiudono pochi mesi dopo il loro avviamento. Di dignità calpestata, di coetanei che si dannano l’anima per sopravvivere e non dover dire grazie ai loro genitori. E più il tempo passa, più la discrepanza tra le due velocità aumenterà. Fino a diventare incolmabile, ad accentuare un già irrefrenabile decadimento culturale, oltre che economico e sociale. 

Proprio non ce la fa, Michele, a sentirsi bene quando rifà le valigie, dà le spalle al suo Sannio e risale la Penisola. E’ un equilibrista sospeso nel vuoto, in bilico tra sollievo e magone, due emozioni contrapposte che si fondono inesorabili. E’ riuscito a salvarsi, ma quanti come lui hanno fatto lo stesso per rabbia, disperazione, paura di non farcela. Quanti sono sullo stesso treno, sullo stesso binario. Quanti sono costretti a salutare ogni volta i propri cari con fatica e commozione. A guardare una terra agonizzante perdere la parte più importante di sé. Il suo futuro.  

Il Sannio nel weekend di Pasqua ha accolto migliaia di giovani tornati a casa per un rapido saluto dopo mesi di assenza. Risorse che il territorio ha perso per mancanza di opportunità lavorative, di investimenti, stimoli e fiducia. Il brano, e dunque i nomi, sono frutto di fantasia. Non lo è l’esperienza raccontata, una sorta di sintesi dei numerosi dialoghi avuti con tanti fuori sede che ho avuto l’opportunità e il piacere di incontrare e conoscere in giorni in cui la provincia ha abbandonato per un attimo il suo torpore. A loro va il mio grazie, ci rivedremo presto.