Estorsione e usura con l’aggravante del metodo mafioso, con queste accuse la procura di Massa Carrara ha chiesto un totale di 45 anni di condanne per sette imputati in un processo nato da un’inchiesta della Dda di Genova sulle infiltrazioni mafiose nel territorio apuano. Il gruppo, formato per lo più da soggetti meridionali e anche alcuni locali, si era infiltrato “terrorizzando”, dicono nella loro requisitoria i due pm, Federico Manotti e Alessia Iacopini, chiunque incappasse nei loro “servizi”. Nell’udienza odierna al tribunale di Massa sono stati ricordati prestiti di 5.000 euro che nel giro di due mesi dovevano essere restituiti a 10.000, minacce per cedere gratis immobili acquistati regolarmente all’asta, l’incendio di una concessionaria. Ci sarebbero state iniziative anche dentro gli uffici della Provincia, con la complicità di un ex dipendente. Rievocate frasi tipo “Questo ora c’è da ammazzarlo, te lo dico papale papale”, “Noi dobbiamo dare conto ad importanti famiglia malavitose, a cui non piacciono i ritardi nei pagamenti”. Il caso fu clamoroso e venne portato alla luce dalla Dda di Genova nel 2018. Nove le persone a processo: per i capi la procura ha chiesto 12 anni e 10 anni; le altre richieste vanno da 3 anni a 7 anni e 6 mesi. Per due imputati è stata chiesta l’assoluzione.
Nella requisitoria del processo la procura di Massa ha chiesto 12 anni per Massimo Di Stefano di Catanzaro e 10 anni per Carmine Romano di Napoli, considerati i due capi del sodalizio malavitoso, e 5 anni per Sergio Romano di Napoli, 4 anni e 2 mesi per Giovanni Formicola di Portici (Napoli), 3 anni e 3 mesi per Fabrizio Micheli di Sassari, 7 anni e 6 mesi per l’ex dipendente della provincia di Massa Carrara Alessandro Puccetti, 3 anni e 6 mesi per Angelo Romano di Napoli. Invece per due imputati, Nicolas Di Stefano e Carla Santorelli, i pm hanno chiesto l’assoluzione perché “il fatto non costituisce reato”. “Noi Massa la governiamo, non la comandiamo, la governiamo”, dicevano tra l’altro gli imputati mentre venivano intercettati nelle indagini che partirono nel 2017 dopo la denuncia di un imprenditore che aveva subito minacce e ricatti per aver acquistato all’asta l’immobile di un amico del gruppo al quale non si poteva “pestare i piedi”. “E’ una delle prime operazioni – commentò all’epoca la procurato di Genova – che dimostra come a Massa vi siano infiltrazioni di soggetti provenienti da altre zone ad alta intensità mafiosa che inquinano il tessuto economico locale”.